lunedì 17 marzo 2008

A cinquattotto anni dall'invasione cinese, il Tibet non è ancora stato domato.


A cinquattotto anni dall'invasione cinese, il Tibet non è ancora stato domato. La rivolta divampata a Lhasa ed in altri centri minori del Paese, con un pesante tributo di morti, dimostra che Pechino non riuscirà a piegare un popolo coraggioso nonostante sia stato sostanzialmente dimenticato dal cosiddetto mondo libero.




L'8 marzo 1989, tre mesi prima dei massacri di Tienanmen, Hu Jintao, oggi presidente della Repubblica popolare cinese, venne mandato in Tibet per "normalizzarlo". Impose la legge marziale e nessuno seppe mai quanti monaci e cittadini furono ammazzati ed imprigionati. Anche allora il mondo libero si voltò dall'altra parte. Cominciavano ad affermarsi gli scambi affaristici con il governo comunista. L'Occidente rinunciava a difendere i diritti umani e la Cina gli apriva i suoi vasti mercati. Dignità contro profitto. Sembrò un buon investimento. Ed ancora deve essere così se gli Stati Uniti, nei giorni scorsi, hanno depennato la Cina dai dieci Paesi che calpestano sistematicamente i diritti umani. A beneficio del commercio mondiale, della globalizzazione e del "mercatismo", ultima religione piovuta chissà da quale cielo sulle nostre tavole imbandite a festeggiare l'indifferenza. Ma il Tibet non muore. Ne sa qualcosa della fierezza di quel Paese chi ha letto i libri del più grande orientalista occidentale, l'indimenticabile Giuseppe Tucci. E chi ha avvicinato il Dalai Lama la cui composta dignità affascina, ma evidentemente non commuove coloro che davanti all'assimilazione forzata dei tibetani non riescono a fare altro che scrollare le spalle e prepararsi a godere dello spettacolo olimpico che la Cina offrirà al mondo la prossima estate. Non muore perché nel profondo il Tibet ha conservato la sua identità. Non muore perché la fede è più forte dell'economia e la fame è più sopportabile della privazione della libertà. Non muore perché le generazioni che si susseguono non diventano cinesi, ma restano tibetane. Chi è nato nel 1950 dovrebbe aver mutato natura dopo la "cura" maoista: invece è rimasto ciò che erano i suoi avi, con sofferenza. Per tutta risposta l'Occidente non considera la questione tibetana tra le priorità politiche. Essa è fastidiosa. Come è fastidioso chi ricorda agli organismi internazionali, dall'inutile Onu all'irrilevante Unione europea, che non è accettabile la Cina nel Wto, ma per sua scelta fuori all'Oil, vale a dire dall'organizzazione mondiale del lavoro. In questo modo Pechino può godere dei vantaggi del libero mercato, ma non deve sottostare alle regole elementari che governano il mercato del lavoro. Vogliamo chiamarlo schiavismo? E' possibile all'alba del XXI secolo perché con questi criteri si può delocalizzare, produrre a bassissimo costo, rivendere a prezzi altissimi, guadagnare sulla pelle degli esseri umani insomma, d'Oriente e d'Occidente. Il Tibet vale meno di niente di fronte a tutto questo.

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